La mia playlist “pandemica” | Message in a bottle

La mia personale playlist per affrontare il periodo, fatta di canzoni degli anni '80 (più o meno) che fanno parte della storia del pop e della mia, personale, storia. MESSAGE IN A BOTTLE dei POLICE.

Stefano Cera

Aprile 8, 2020

La mia personale playlist per affrontare il periodo, fatta di canzoni degli anni ’80 (più o meno) che fanno parte della storia del pop e della mia, personale, storia.
MESSAGE IN A BOTTLE dei POLICE.

Video della canzone

“Sono uscito per passeggiare stamattina, non credo a cosa ho visto, Centinaia di miliardi di bottiglie trascinate a riva sul bagnasciuga… Sembra che non sia il solo ad essere solo, Cento miliardi di naufraghi, che cercano una casa”.

Ho sempre amato questa canzone perchè, a parte la musica incalzante e l’esecuzione di un gruppo tra i miei preferiti in assoluto, vivevo nel testo il senso di cercare un senso nella solitudine, che poi è anche la ricerca di senso nella propria vita. E ascoltare questa canzone ora, a causa di separazioni forzate e contatti sociali ridotti al lumicino, fa sentire clamorosamente “attuale” una canzone del 1979 che ascoltavo quando avevo, più o meno, l’età di mio figlio. Infatti, il senso della solitudine che tanti di noi stanno vivendo in questo momento provoca sensazioni (forse) mai provate prima. Eppure non siamo naufraghi, non siamo prigionieri di un’isola, viviamo in quella che dovrebbe essere la zona di comfort.

Eppure noi, una volta con le nostre giornate impegnate, piene di tutto che ci potevamo mettere dentro e senza quasi tempo per riflettere, ora forse ci accorgiamo che quella zona di comfort ce l’avevamo proprio fuori casa, in mezzo alle cose da fare, alle attività per cui sentirci occupati, alle persone da incontrare. Questo, forse, era quello che ci faceva sentire importanti… E ora che invece abbiamo quel tempo che quasi mai ci capita di avere, proprio in questo momento cerchiamo un senso, una “pienezza” e soprattutto la “direzione” del tempo che abbiamo a disposizione.

Distanti con il corpo, tuttavia vicini con il cuore, le immagini e la voce (del telefono, della tastiera e di ogni specie di “attrezzo” elettronico). E così, immagino, a casa nostra, sulle nostre personali spiagge, di fronte a quel mare da affrontare forse da domani con la mascherine (che peraltro sono difficili da trovare) siamo in fondo tutti dei naufraghi che, così come racconta la canzone, tramite un messaggio, una chat, una telefonata mandiamo il nostro personale SOS che si unisce a quello di tanti altri. Naufraghi anche loro, nelle loro case-isole.

Abbiamo perso le nostre abitudini e speriamo di ritrovarle (?) o trovarne forse di nuove. Perchè riuscire fuori, ritrovare il mare, aprirsi al mondo significherà affrontare situazioni nuove, o meglio le stesse ma a cui guarderemo in modo diverso. Conosciamo cosa era “prima del virus…”, non sappiamo “quello che verrà dopo”. Vivendo, da naufraghi “sospesi”, un tempo che è sospeso e transitorio, eppure così presente in noi.

I’m sending out an SOS che speriamo prima o poi possa essere raccolto (prima di tutto da noi stessi) e tornare in un mondo che tuttavia non potrà essere (lo spero) quello di ieri. Un mondo che, speriamo, possa fare tesoro di questo “naufragio” di quella che una volta era la nostra vita, c.d. “normale”.

Io non lo considero un periodo di pausa, uno stand-by della nostra anima prima di riprendere la nostra corsa… io la considero una sfida, uno spazio di apertura verso qualcosa di nuovo. Alla fine del nostro naufragio collettivo, la barca con cui riprenderemo il mare dovrà essere diversa da quella con cui siamo arrivati sulla nostra isola deserta, all’inizio di marzo…

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