Dalla lettura dei commenti di questa mattina (sui giornali e sui social), scaturisce questa mia riflessione sul momento che stiamo vivendo…
Post pubblicato alle 12:00 dell’8 marzo 2020.
Stiamo vivendo quelli che tra qualche anno, ripensandoci a mente fredda, e magari “quando avremo unito tutti i puntini” (come disse Steve Jobs nel 2005 in un famoso video), definiremo “i giorni del coronavirus”. Giorni in cui i decreti legge si sono susseguiti a distanza di poco tempo e con essi tutte le polemiche su scelte del governo, scelte individuali e “fughe di mezzanotte” verso quei treni “dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va(nno)…” (come cantava ormai tanti anni fa Adriano Celentano in Azzurro) portando le persone da un Nord che stava per chiudere verso altre regioni.
La sindrome del free-rider
Non entro nel merito, anche perchè in molti hanno scritto (sui social, ad es.) sulle presunte scelte “irresponsabili” di molti; preferisco invece guardare le cose da una diversa prospettiva. Per me, infatti, questa situazione (e mi riferisco anche alle notizie di persone che hanno eluso la zona rossa, ad es. per andare a sciare, salvo poi sentirsi male e presentarsi al pronto-soccorso e prendersi i “rimproveri” di tutti) è una rilettura di quella che i sociologi hanno definito “il fenomeno del free rider”. Avendo letto di questo concetto ormai anni fa, durante l’esame di sociologia generale all’università (correva l’anno 1986), sono andato a ripescare le sintetiche informazioni che riporta wikipedia sul tema.
E ho trovato cose interessanti. “In ambito sociologico, il fenomeno del free rider ha luogo quando, all’interno di un gruppo di individui, si ha un membro che evita di dare il proprio contributo al bene comune poiché ritiene che il gruppo possa funzionare ugualmente nonostante la sua astensione” [1]. In questo caso, secondo me, “astensione” potrebbe significare adottare un comportamento diverso da quello “raccomandato” per garantire il benessere comune. Continua la pagina Wikipedia, “Free Riding è un’espressione che prende il nome proprio dal comportamento di colui che sale sull’autobus senza comprare il biglietto. In italiano, in generale, ‘free-rider’ può essere reso col termine ‘scroccone’ e free-riding’ con ‘scroccare’ (termine in uso già dal XVI secolo secondo il dizionario Sabatini – Coletti)”.
Il free-rider e il coronavirus
In questa situazione il “free-rider” può essere visto come colui (o colei o coloro che facciamo anche prima) che, all’interno di un gruppo di individui, evita di dare il proprio contributo al bene comune poiché ritiene che il gruppo non avrà ripercussioni nonostante il suo comportamento diverso. O magari non ci pensa. O, se ci pensa, non importa tanto difficilmente qualcuno se ne accorgerà. Salvo poi avere amare sorprese e, in caso di esito positivo (al coronavirus) accorgersi di essere stato involontaria fonte di potenziale contagio. In generale, mette in evidenza, a mio parere, la volontà di fare qualcosa “di furbo” che comunque, anche se non ce ne rendiamo conto, si ritorcerà, in un modo o nell’altro, contro tutta la collettività. E in essa mettiamo, inevitabilmente, anche le persone a cui siamo più legati. Perchè certamente, metteremo -con i nostri comportamenti- a rischio anche la loro incolumità. Andiamo via da un potenziale pericolo per crearne, forse, un altro.
Cosa si può fare?
Continuando a leggere la pagina Wikipedia, scopro che riguardo le ipotesi di soluzione a questo fenomeno, quella “più pratica per [contrastare il fenomeno] risulta essere istituire un sistema di vigilanza sul free-rider non permettendogli di attuare tale politica a danno degli altri”. Su un autobus o sulla metro può essere più facile, perché posso mettere dei controllori. In un caso del genere, invece, come si può fare? Tenendo anche conto che non siamo la Cina (purtroppo per alcuni, per fortuna per altri) e siamo in un paese in cui le misure draconiane sono sempre difficilmente conciliabili con la nostra anima “individualista e ribelle”?
Un’idea mi è venuta leggendo la dichiarazione del Governatore della Puglia, Michele Emiliano. Ossia, imporre che le persone “fuggite”, “emigrate” dal Nord verso il Sud o semplicemente tornate presso le loro abitazioni (ad es. le persone che lavorano in Lombardia ma sono residenti in altre regioni) comunichino il loro ritorno alla ASL del luogo dove arrivano e siano in isolamento “volontario” per il periodo necessario.
Lo so, qualcuno direbbe che tanto per chi non vuole capire, non è una cosa di questo genere che potrebbe funzionare. D’altra parte, in ogni caso, io penso che servirebbe a richiamare l’attenzione delle persone che hanno deciso di partire all’ultimo momento prima della “zona rossa” su un senso civico collettivo che magari è stato trascurato (presi dal panico del momento) e, sono convinto, servirebbe comunque a far sì che qualcuno lo farebbe. E servirebbe comunque a contenere i danni, perchè temo che in ogni caso dei danni siano stati fatti… che si aggiungono ai notevoli (di tutti i tipi) prodotti da questa emergenza.
E, a proposito di questi, spero che si inizi presto a parlare anche di supporti a che dal coronavirus sta subendo dei danni incalcolabili…
___________________________
[1] N.Tebben- J.Waterman, “Epistemic Free Riders and Reasons to Trust Testimony”, Social Epistemology 29, no. 3 (July 2015): 270-279.
0 commenti